C’è un filo invisibile che lega le tensioni in Medio Oriente, le sfide energetiche dell’Occidente, le nuove guerre commerciali e perfino gli scontri etnici in regioni lontane. Ma quel filo non è solo geopolitico. È morale, culturale, sociale. E attraversa anche noi, le nostre società che da decenni si proclamano pacifiche, avanzate, moderne. Ma che hanno smesso di costruire pace vera perché hanno smesso di costruire comunità.
Viviamo in un tempo in cui i diritti civili – sacrosanti, sia chiaro – hanno oscurato quelli sociali. Abbiamo parlato a lungo di libertà individuali, autodeterminazione, riconoscimento delle identità, ma nel frattempo abbiamo dimenticato i bisogni collettivi, le disuguaglianze crescenti, le fratture di classe, la povertà educativa, il lavoro che manca o che non basta a vivere. Abbiamo perso l’equilibrio. E quando si perde l’equilibrio, si cade. Anche verso la guerra.
Oggi i conflitti esplodono ovunque. Ma non solo per fame di potere, risorse, controllo. Esplodono anche perché le comunità si sono disgregate. Perché la famiglia – primo argine alla solitudine e alla rabbia – è stata lasciata sola, o peggio ancora svalutata come residuo del passato. Perché la scuola non è più luogo di crescita condivisa, ma di selezione e frammentazione. Perché il lavoro non unisce più, ma divide. E perché il senso stesso di appartenenza è stato sacrificato sull’altare dell’individualismo.
L’Occidente si sorprende della violenza nel mondo, ma spesso non si accorge della propria decadenza. Di una libertà senza responsabilità. Di una laicità che troppo spesso scivola nel vuoto spirituale. Di una società che si batte per il diritto a ogni scelta, ma si dimentica di difendere il dovere di educare, di accudire, di costruire. Ci battiamo per scegliere il nostro genere, ma non per garantire un’istruzione a tutti i bambini. Ci indigniamo – giustamente – per le discriminazioni, ma non ci scandalizziamo più per chi vive senza casa, senza lavoro, senza speranza.
I diritti civili senza diritti sociali diventano maschere. E i diritti sociali senza una cultura del dovere e della comunità, restano promesse vuote. Così, anche in una società ricca di leggi e garanzie, il conflitto riemerge. Dentro le famiglie, nei quartieri, nelle istituzioni. Finché poi, fuori da noi, si trasforma in guerra.
La pace non è un gesto diplomatico. È un ordine morale. È un sistema di valori, è una forma di convivenza che si costruisce dal basso. Dalla scuola, dal lavoro, dalla famiglia. La pace nasce dove c’è fiducia, appartenenza, educazione. Dove si impara a stare insieme e non solo a pretendere. Dove si costruiscono legami, e non solo identità. Dove si dà, non solo si rivendica.
Ecco perché oggi la crisi è così profonda. Perché è prima di tutto una crisi di civiltà. Finché non torneremo a parlare di noi più che di me, di dovere più che di desiderio, di comunità più che di identità, continueremo a curare le ferite dei conflitti senza curarne le cause. Continueremo a firmare tregue che non diventano pace. Perché chi ha dimenticato il significato della famiglia, della solidarietà, della condivisione, non può costruire un mondo giusto. E senza giustizia, lo sappiamo, non c’è pace. Mai.
Beppe Spatola