Castello Sforzini

di Castellar Ponzano

L’arte di saper perdere, senza smettere di desiderare la vittoria. Riflessione di un allenatore di settore giovanile

Nel calcio, come nella vita, non si cresce solo attraverso la conquista, ma spesso, e forse più radicalmente, attraverso la perdita.
La sconfitta non è soltanto un momento da superare: è una soglia da abitare.
È lì, dentro il vuoto lasciato da un obiettivo mancato, che può nascere una consapevolezza nuova.
Saper perdere non significa accettare tutto, né tantomeno cedere alla passività del “va bene così”.
Significa stare dentro al limite, guardarne il volto, riconoscerne la forza formativa.
Non per arrendersi, ma per diventare più lucidi, più presenti, più veri.
Per chi educa nello sport, e in particolare nel settore giovanile, la sconfitta non è un inciampo da evitare, ma una componente inevitabile e preziosa del processo formativo.
Il suo valore non è automatico: va guidato, interpretato, restituito con senso.
Un ragazzo lasciato solo davanti alla propria delusione può trasformare l’insuccesso in un peso muto; ma se qualcuno lo accompagna, se lo aiuta a nominarlo, allora quel vuoto può diventare spazio per una crescita autentica.

Nietzsche lo dice con una formula che è diventata proverbiale: “ciò che non ci distrugge ci fortifica”.
Ma la sua lezione non si esaurisce nella resistenza, la sua filosofia ci insegna che l’identità si forgia nell’attraversamento del dolore, nel confronto sincero con le proprie ombre, anche in una sconfitta sportiva, se vissuta con lucidità, un giovane può scoprire chi è, dove si trova, cosa gli manca.
Non per giudicarsi, ma per orientarsi.
Perché è proprio nei momenti in cui il risultato non arriva che si manifesta con chiarezza il margine su cui lavorare, e in questo, perdere non è un inciampo: è un’indicazione.
Aristotele, da parte sua, ci offre un altro strumento: la teoria della mesótes, della giusta misura.
La sconfitta, se non interpretata, può generare arroganza o rassegnazione, due derive ugualmente sterili.
Il compito del formatore, dell’allenatore che educa, è quello di coltivare equilibrio: aiutare a reggere l’urto della delusione senza perdere la tensione verso l’eccellenza.
Perché si può cadere senza frantumarsi, si può perdere senza svuotarsi, e anzi, a volte proprio lì si semina qualcosa che in una vittoria facile non avrebbe mai attecchito.
Ma attenzione, non si tratta di celebrare la sconfitta, né di darle un valore assoluto, non si educa al perdere come destino, e non si auspica la sconfitta come prova necessaria.
Vincere è legittimo.
È un desiderio autentico, una forma di gioia e di riconoscimento, però è anche vero che il modo in cui si vince dipende profondamente da come si è stati capaci di perdere.
Allenare alla sconfitta significa, allora, fornire strumenti per restare presenti anche quando brucia, è un atto d’amore, donare la capacità di abitare il dolore senza smarrirsi.
Dare un nome all’emozione, rileggere l’errore, distinguere tra responsabilità e colpa, aiutare a reggere la frustrazione senza trasformarla in cinismo, né in alibi.

Ecco allora che l’allenatore, specie nei contesti giovanili, assume un ruolo che va ben oltre la preparazione tecnica.
Diventa un riferimento interpretativo, una guida di senso, é lui, in molti casi, che ha il compito di restituire ai ragazzi una narrazione possibile della loro esperienza sportiva.
Di trasformare un risultato in un’occasione, una frattura in un apprendimento, perché i ragazzi non si identificano solo con quello che accade in campo, ma con il significato che gli viene attribuito e sapere che una sconfitta non dice “chi sei”, ma può aiutarti a diventare “chi vuoi essere”, è forse il messaggio più potente che un educatore possa offrire.
Così anche la vittoria, in questo orizzonte, cambia natura, non è più un fine da inseguire ad ogni costo, ma una conseguenza di un processo. È ciò che accade quando tutto il resto, il gioco, il gruppo, la disciplina, la crescita, trova un proprio equilibrio.
Aristotele ci ricordava che esistono fini strumentali e fini intrinseci.
Applicato allo sport, questo significa che allenarsi bene, affrontare con coraggio le difficoltà, esprimere con coerenza un’identità di gioco sono fini intrinseci.
La vittoria è strumentale: non inutile, ma secondaria.
Frutto, non ossessione.

Per questo, forse, nel calcio formativo non si dovrebbe giocare per vincere, si dovrebbe vincere perché si è giocato bene.
Ed è in questa inversione di prospettiva che si gioca tutta l’etica dello sport educativo, non si tratta di negare il risultato, ma di ridisegnarne il senso.
Chi ha imparato a perdere con dignità, con lucidità, con attenzione, sarà in grado di vivere la vittoria con gratitudine, misura e consapevolezza, perché la vittoria non è il contrario della sconfitta, ma la sua prosecuzione ben gestita.
Nel settore giovanile, questo non è un dettaglio. È la questione centrale, non si tratta di scegliere tra vincere e formare, ma di capire che solo una formazione autentica può generare vittorie che abbiano davvero valore, e questa, in fin dei conti, è la vittoria che più conta.

Giulio Todisco

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