di Luca Sforzini, esperto d’Arte e proprietario del Castello di Castellar Ponzano (https://www.valutazione-quadri.it/)
Achille Funi ha dato al Novecento italiano una parola d’ordine semplice e severa: misura. Ferrarese di nascita, formatosi tra futurismi giovanili e rientri al disegno dopo la guerra, Funi sceglie una strada che sembra controcorrente nell’epoca dell’“io” gestuale: riporta la pittura alla disciplina del classico. Ma attenzione: il suo “ritorno all’ordine” non è un rifugio antiquario. È un progetto etico: ristabilire il patto fra figura e città, fra corpo e architettura, fra arte e vita civile.
Figura come architettura morale
Nei suoi nudi monumentali e nelle allegorie di lavoro, musica, storia, la figura è trattata come solido ideale. Il disegno domina: volumi nitidi, profilature ferme, panneggi pensati come geometrie portanti. Il colore non seduce; temperanza: terre, ocra, rossi ferruginosi, azzurri attenuati. L’effetto non è accademico: è classico moderno—un organismo che “sta” nello spazio senza gridare. Nei cicli murali la figura si lega alla parete come un fregio che ha imparato la lezione rinascimentale ma parla la lingua del Novecento.
Muralismo: la città come committenza
La vocazione di Funi è pubblica. Il suo mestiere fiorisce davvero nei grandi apparati decorativi: scale d’onore, aule, sale civiche, spazi istituzionali. Qui il pittore ritrova il tema antico della civiltà condivisa: storie cittadine, allegorie della scienza e delle arti, parabole morali. Non è propaganda; è civismo. La pittura murale diventa un codice di comportamento: compostezza, sobrietà, forza tranquilla. Contro l’espressionismo del tormento, Funi oppone la serenità costruttiva—che è una presa di posizione politica: l’arte deve tenere insieme, non dissolvere.
Tecnica: dal buon fresco alla tempera, fino all’olio disciplinato
Funi padroneggia materiali e tempi. Nel buon fresco lavora per giornate chiaramente leggibili; disegno trasferito con spolvero o incisione leggera, campiture tonali brevi, ombre “asciutte”. Nel secco riprende e raccorda; la tempera all’uovo gli garantisce un opaco controllato. In olio resta fedele alla pelle magra: niente impasti, niente verniciature a specchio. Il risultato, a distanza di decenni, è una pelle pittorica sana, con craquelure sobrie, che invecchia senza spettacolo—come conviene alla sobrietà.
Etica dello sguardo
Il cosiddetto “Novecento italiano” ha avuto relazioni complesse con il potere; il rischio, col senno di poi, è leggere tutto in chiave ideologica. Funi chiede un altro metro: giudicare la forma. La sua “ortodossia” figurativa è una scelta di responsabilità: ridurre la retorica dell’io, restituire leggibilità allo spazio pubblico, educare lo sguardo alla giustezza. Che è l’opposto dell’arte addomesticata: è arte che fonda.
Confronti e malintesi
Si è detto “accademico”. Non regge: Funi progetta come un architetto, non imbelletta. Si è detto “neoclassico”. Sì, ma con una temperatura moderna che nulla ha del museo di cere: le sue figure hanno peso specifico, non posa. Con Sironi condivide l’idea di muralismo civile; se ne distingue per una castità luminosa e per una centralità del disegno che disinnesca ogni titanismo.









