Quando in storiografia si pensa alla circolazione del sapere scientifico e della cultura europea – non certo a torto – gli occhi della mente vanno al XVII ed al XVIII secolo. Eppure, è stato dimostrato che un’importante premessa storico-intellettuale allo sviluppo della scienza sei e settecentesca si è avuta già nelle città italiane del XVI secolo, in particolare per quanto riguarda la storia naturale. Proviamo in questa sede ad andare ancora più indietro, domandandoci quale fosse l’identità scientifica europea tra la fine del Medioevo e la prima età moderna, alla ricerca e delle radici e delle origini del dialogo culturale sviluppatosi soprattutto a partire dalla grande stagione umanistico-rinascimentale, con l’opera d’Erasmo a Rotterdam e quella di Ermolao Barbaro a Venezia. E proprio la capitale della Serenissima Repubblica veneta fu al centro di quel cruciale triangolo, completato da Bisanzio e Palermo, che vide sino alla metà del XV secolo un fitto e proficuo commercio di manoscritti scientifici, astronomici in particolare. Dalla biblioteca veneziana del cardinal Bessarione, si sa, è nato del resto il primo nucleo della Marciana.
Il secondo Quattrocento è caratterizzato dall’instaurarsi della connessione fra le matematiche e la rivoluzione tipografica realizzata da Gutemberg a Magonza verso il 1447, con la creazione della stampa a caratteri mobili. Un evento davvero senza ritorno, anche nella storia del sapere scientifico-tecnico di età moderna. La produzione di libri riduce o elimina infatti gli errori dei copisti medievali, moltiplica le possibilità di lettura e favorisce infine un miglior grado di alfabetizzazione.
Con l’avvento dell’Umanesimo, si sa, la cultura europea si riappropria poi dei classici: li ripristina filologicamente, li legge e studia nella lingua originaria, li traduce e fa circolare, in quella che resta la prima autentica culla della Respublica litterarum d’età moderna. Gli attori storico-sociali responsabili e i protagonisti di tale operazione intellettuale sono dotti ed eruditi, versati e nel greco e nel latino, con a disposizione vaste competenze, tanto scientifiche quanto letterarie. L’invenzione della stampa da parte di Gutemberg a Magonza è il fattore tecnico che fa da spartiacque tra due mondi: moltiplica da un lato le possibilità di acculturazione e di circolazione del sapere, favorendo, dall’altro, la pubblicazione di ulteriori testi, con tirature sempre maggiori, testi che vanno poi via via sostituendosi agli incunaboli. La cosa riguarda anche le matematiche: il XVI secolo riscopre la scienza di epoca ellenistica, i trattati sulle macchine di Erone di Alessandria, la geografia di Eratostene e l’algebra di Apollonio di Perga, la cui lettura fornisce ai matematici italiani e francesi apporti e stimoli per la soluzione di equazioni di grado superiore al secondo. Si passa inoltre definitivamente dall’algebra retorica (che fa ricorso a descrizioni) a quella sincopata (ossia che impiega i simboli), aprendo le porte alla nascita della geometria analitica, realizzata da Descartes nel 1637, con la rappresentazione sul grafico delle funzioni. Il secolo XVI vede inoltre in Inghilterra la nascita moderna di logaritmi e trigonometria, rispettivamente con John Napier e Henry Briggs, due tra i maggiori matematici dell’epoca elisabettiana.
La vera grande riscoperta cinquecentesca, maturata anche grazie alla stampa, è tuttavia quella di Archimede. Nell’opera del matematico e inventore siracusano, la scienza del XVI sec. poté trovar la via davvero corretta per l’applicazione dello strumento matematico allo studio della natura fisica. Poterono beneficiarne così gli studi di meccanica (Guidubaldo del Monte, Niccolò Fontana detto Tartaglia e Luca Valerio) e di ottica (Francesco Maurolico, successivamente tra le letture di Newton), ma, più di tutto, discipline come la statica e l’idrostatica. Va menzionato in merito Simon Stevin di Bruges (un ingegnere dalla notevole preparazione matematica): studiò il peso dei corpi immersi nell’acqua, si concentrò sulla nozione di momento (che durante il Medioevo era stata analizzata dalla misteriosa figura di Giordano Nemorario) e costruì anche un carro a vele per il principe d’Orange. Stevin fu davvero l’Archimede del Rinascimento, appena prima di Galileo.
Meccanica e geometria in Italia al sorgere dell’Umanesimo
A portare nella nostra penisola il nuovo sapere matematico elaborato a Parigi ed in particolare a Oxford, non senza originalità, fu Biagio Pelacani da Parma, vissuto fra XIV e XV secolo, un nome di rilievo nella storia delle relazioni fra la matematica (soprattutto la teoria dei rapporti), fisica e filosofia naturale, specie in ragione delle sue concezioni epistemologiche e tecniche. L’opera di Biagio a cui ci si riferisce sono le Quaestiones circa tractatum proportionum Magistri Thome Braduardini, un testo che non si limita in realtà a commentare il Tractatus di Bradwardine e il De proportionibus proportionum di Oresme – che pure delle Quaestiones costituiscono i presupposti – per approdare infatti ad un’analisi di grande interesse sul versante storiografico.
Biagio riflette gli sviluppi sia storici sia intellettuali del mondo universitario tardomedievale, alle soglie oramai della prima età moderna. A partire dal Trecento, si afferma sempre più la necessità della certitudo, ossia di ciò che rende certa la conoscenza. Ne discutono Buridano e Nicola d’Autrecourt, ma è Pelacani soltanto a sostenere, per primo e con chiarezza, che la certezza maggiore è assicurata dalla matematica. Questa è, per lui, ancella della conoscenza. Nell’organizzazione del sapere, presente nelle Quaestiones, Pelacani definisce infatti la matematica la più nobile tra le scienze.
Il modello è il Tractatus di Bradwardine, in relazione al quale il parmense rielabora e sviluppa le sue Quaestiones. Trattasi di due testi altamente rappresentativi di un rinnovato approccio alla filosofia naturale mediante la matematica, che da Aristotele e dagli aristotelici in genere era sempre stata più che sottostimata. La matematica è secondo Pelacani uno strumento concettuale fondamentale, bisognoso di approfondimenti, tanto teorici, quanto metodologici. Stretto è il rapporto fra la matematica e la teoria del moto, che Biagio illustra ai magistri del suo tempo. Legato al nominalismo di Guglielmo di Occam, Pelacani dà voce al punto di vista matematico, utile per conoscere, attraverso lo studio dei rapporti, la natura delle diverse quantità (e qui il passo in avanti, rispetto a Bradwardine, è netto). Rimane, nella forma espositiva, qualcosa di peripatetico: Pelacani affronta i temi matematici usando la tradizionale quaestio. La struttura del suo argomentare è rigorosamente razionale e deduttiva, non esente da certe preoccupazioni di ordine didattico.
Pelacani si dedica, in maniera fruttuosa, alla teoria dei rapporti matematici. Come altri maestri delle Università medievali, può appoggiarsi alla teoria delle proporzioni, contenuta negli Elementi di Euclide, peraltro giunti a lui (ed alla sua generazione di studiosi) modificati da una lunga storia fatta di viaggi, traduzioni ed interpretazioni. Il testo di riferimento per Biagio e per i matematici del Trecento e Quattrocento è quello, arabo-latino, di Campano da Novara (soltanto il XVI secolo conoscerà il vero Euclide, grazie all’edizione, filologicamente ripristinata, di Federico Commandino). Altre teorie erano state avanzate, in precedenza, da Boezio nella sua Institutio Arithmetica – che aveva diffuso nel mondo latino l’Introductio Arithmeticae del pitagorico Nicomaco di Gerasa – e da Giordano Nemorario nel suo De elementis arithmeticae artis.
I punti di riferimento di Pelacani sono, però, soprattutto Bradwardine e Oresme. Del secondo, Biagio rilegge il De proportionibus proportionum e l’Algorismus proportionum, riprendendo l’idea di rapporto fra rapporti, una delle più rilevanti novità in matematica nel XIV secolo, non soltanto per il concetto in sé, ma anche per gli approfondimenti ai quali apre la strada (come sottolineato da Dario Patrone). Sulla scia di Bradwardine ed Oresme, Pelacani spiega come si possa definire una relazione di proporzionalità fra una quantità (come la velocità) e una relazione (così, nel tardo Medioevo, venivano concepiti i rapporti; ad esempio, quello tra la forza e la resistenza). A conti fatti, Pelacani passa dalla proporzionalità di Euclide al concetto di rapporto dei fisici trecenteschi. I contributi di questi ultimi, ricchi di affascinanti costrutti tecnici e slittamenti concettuali, risultano assai gravidi di conseguenze, per la storia della matematica successiva.
Pelacani definisce la natura dei rapporti matematici, studiandone omogeneità, composizione e similitudini. Le proporzioni euclidee diventano, nelle sue pagine, rapporti e le possibilità applicative della scienza fisica ne risultano moltiplicate. Pelacani denomina i vari tipi di rapporti matematici – anche di quelli tra numeri irrazionali – in una chiave prima assolutamente inedita. Li confronta e lo fa, ogni volta, sotto un profilo modernamente quantitativo, tentando di giungere alla formulazione di una legge matematica del moto. Molte, poi, delle questioni affrontate dal filosofo naturale sono trasversali, incrociando geometria e fisica, specialmente nell’ultima parte della sua opera. Più d’ogni altra cosa, ad interessarlo sono le relazioni matematiche tra le quantità. Pelacani riprende, inoltre, pure il problema pitagorico del rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato. Analizza gli estremi dei rapporti numerici, uguaglianze e disuguaglianze, sempre in relazioni ai fenomeni fisici (come la velocità di un corpo). Il matematico di Parma studia, altresì, la possibilità di rapportare quantità di natura diversa ed i rapporti infiniti. Il fine è costantemente quello di conoscere, dal punto di vista matematico, la natura dei rapporti tra le diverse quantità. Un altro tema che gli preme è quello, tradizionale, riguardante le relazioni tra commensurabilità e incommensurabilità, razionalità e irrazionalità. Quando compara i rapporti – a loro volta distinti in maggiori, minori oppure uguali – Pelacani non lesina precisazioni lessicali. Il suo è, in definitiva, uno snodo imprescindibile tra la fisica matematica medievale (francese e specie inglese) e le operazioni di matematizzazione della natura compiute dalla scienza italiana ed europea successiva. Non solo e tanto la filosofia naturale del Rinascimento, quanto soprattutto il galileismo seicentesco porterà a compimento il percorso storico principiato da Pelacani riguardo alla geometria euclidea.
Nato nei pressi di Parma fra il 1350 e il 1354, Pelacani si iscrisse alla Facoltà Artium philosophie et medicine di Pavia intorno al 1374. Tre anni dopo era già, stando ai registri, il Magister philosophie et loyce. Nel 1378 Pelacani insegnò ancora a Pavia, ma l’anno dopo si spostò a Padova. Caduto il regime signorile carrarese, verso la fine del 1388, Pelacani si trasferì a Firenze, dove tenne un corso di filosofia pratica e naturale all’Università, nelle vesti di Magister philosophiae naturalis et moralis. Vanno pure collocate in questi mesi alcune dispute, da lui sostenute, e menzionate poi dal Paradiso degli Alberti: una delle più accese riguardo al bene e alla felicità, alla presenza, tra gli altri, anche di illustri figure del nostro primo Umanesimo, come Coluccio Salutati.
Eloquente, arguto, esperto anche in questioni politiche ed economiche – non solo quindi logiche, matematiche e di filosofia naturale – Pelacani, a Firenze, fece mostra di tutta la propria preparazione e vastissima erudizione. Dal 1388 sino al 1407 egli fu quindi, di nuovo, in riva al Ticino, docente di artes mathematicae et utraque philosophia, seppure con un’interruzione dal 1398 al 1402 per il trasferimento dello Studio di Pavia a Piacenza, forse per l’arrivo della peste, dietro decreto di Gian Galeazzo Visconti del 28 ottobre 1398. Dopo il ritorno nello Studio pavese, Pelacani fu, tra il 1403 ed il 1404, ammesso tra i fixici legentes philosophiam cum lectura moralis, astrologie et cum mathematicis.
Fautore di un aristotelismo profano e contro-corrente, controverso ed irrequieto, come sarebbero stati molti libertini successivamente, seguace (per sole ragioni di comodo) della dottrina della doppia verità di Sigieri di Brabante, a Pavia Pelacani restò un ventennio, occupandosi di filosofia e di fisica, di ottica e di astronomia. Compose le Questiones super tractatum de proportionibus Thome Bradwardini, sulle quali tornò nel 1391 predisponendo due distinte redazioni, la prima delle quali era verosimilmente assai vicina come spirito alle tesi più radicali dell’insegnamento padovano, mentre la seconda è giunta sino a noi solo in un manoscritto del domenicano Pietro Raimondi da Como.
Ampia circolazione, anche patavina, ebbero, poi, le Questiones de latitudinibus formarum, che – dedicate a geografia e cartografia matematica – ebbero almeno due, se non tre, redazioni. Nel 1407 – ormai abituato a fare la spola tra i maggiori atenei della nostra penisola, svolgendovi altresì funzioni di intermediario culturale – Pelacani ritornò a Padova, ove continuò ad avere un successo di insegnante al quale doveva essersi a quel punto abituato. Erano gli anni di Vittorino fa Feltre e di Paolo Veneto. Nel 1411, fece finalmente ritorno a Parma, nominatovi da Niccolò d’Este priore del Collegio delle Arti. Nel 1416, morì nella città ducale, amatissimo e stimatissimo dai conterranee e non solo (novello Macrobio, erano soliti chiamarlo).
Originale e stravagante, eccentrico e singolare – stando, almeno, ai cronisti dell’epoca – Pelacani ha lasciato un notevole corpus manoscritto. La sua produzione filosofico-scientifica segue la classica e scolastica suddivisione medievale (expositio, questio, questio disputata e reportationes). La scientia, a suo avviso, non poteva più limitarsi al commento della logica aristotelica, ma vi andavano aggiunte con un indirizzo già premoderno le matematiche: soprattutto molti dei testi più importanti che arrivavano da Oxford e Parigi, Colonia ed Erfurt. Manoscritti del parmense circolarono abbastanza ampiamente anche nel secondo Quattrocento, come attestano le menzioni di Luca Pacioli e Leonardo. Inoltre, alcune delle sue opere furono anche (e precocemente) stampate: tra queste, le Questiones de latitudinibus formarum vennero impresse, in Padova, da Matteo Cerdone, tra il 1482 ed il 1486; la Questio disputata de tactu corporum durorum, tradita da diversi manoscritti, venne impressa «per Ottaviano Scoto» a Venezia, nel 1505, ed ancora in Laguna, presso Ottaviano Scoto, videro la luce le Demonstrationes geometrice in theorica planetarum Alpetragi (1518). L’attestazione di un confronto generoso ed aperto con la scienza arabo-islamica basso-medievale.
Pelacani fu un vero enciclopedista, interessandosi di sfera celeste e proporzioni del moto, statica della bilancia ed ottica geometrica. Per studiare ad esempio la propagazione della luce o la velocità del movimento dei corpi, argomentava, non ci ci poteva più richiamare ad astratte teorie logico-teologiche, bensì a certe dimostrazioni matematiche, da applicarsi alla fisica, per risolvere i vari problemi. Si tratta, a ben vedere, dell’orientamento seguito tra XVI e XVIII dalla nuova scienza europea. Per illustrare, ad esempio, lo spazio diafano tutto pieno (horror vacui), o la perfezione del moto circolare, per Pelacani il tipo di approccio doveva farsi quantitativo, e rinunziare alle vane essenze del sostanzialismo metafisico di marca aristotelico-scolastica. Solo l’adozione di un nuovo metodo, pertanto, era in grado di condurre il filosofo naturale alla più completa conoscenza del mondo fenomenico a lui esterno.
La scienza nel mondo mediterraneo
I grandi spazi della crescita scientifico-tecnica durante la modernità, come noto, sono soprattutto italiani (almeno sino al processo a Galilei del 1632-33), francesi (fino quasi alla fine del XVII secolo) e inglesi, a partire quanto meno dalla fondazione ufficiale della Royal Society (estate 1662) e dalla prima stampa dei Principia newtoniani, all’inizio del 1687. Tuttavia, per quanto in apparenza più frammentari e su scala minore, nuovi apporti filosofico-culturali e un primo sorgere del dialogo scientifico si ebbero anche in precedenza e interessano geograficamente l’Europa meridionale e mediterranea, segnatamente il mondo iberico, la Francia e le più vivaci fra le città italiane di allora.
Nel primo Quattrocento, sono ancora vivissime le matematiche dell’abaco, molto utilizzate in un mondo di mercanti e centri urbani in fiorente crescita. L’abaco, strumento per fare di conto ed eseguire calcoli aritmetici, era stato introdotto nell’Occidente latino – insieme all’astrolabio, usato da naviganti e marinai, per le osservazioni celesti – dall’erudito Gerberto di Aurillac, papa col nome di Silvestro II dal 999 al 1003, figura chiave nella cosiddetta Rinascita dell’anno Mille.
Il tipo di insegnamento delle scuole d’abaco era quello dell’imparare facendo e vedendo fare: un metodo quindi empirico, che puntava a trovare, speditivamente, la soluzione dei vari problemi di natura matematica e geometrica. Il modello e la tradizione di riferimento erano qui il Liber abaci ed il Liber quadratorum, scritti, da Leonardo Pisano, nel corso del Duecento: due manoscritti dal marcato taglio pratico, che ci riportano al mondo dell’apprendistato, dove le applicazioni pratiche venivano affrontate anche in funzione d’una casistica di problemi matematici appresa in precedenza.
Le scuole d’abaco si diffusero principalmente a Verona (dal 1284) ed in Toscana. Lo sviluppo fu parallelo a quello delle botteghe artigiane di Firenze: ambedue furono infatti spazi propedeutici, molto importanti, per l’affermazione di un nuovo sapere. Dal latino di Leonardo Pisano si passa al volgare nei ‘trattati d’abaco’ quattrocenteschi (sono circa trecento i manoscritti conservatisi ed arrivati sino a noi): essi sono più un elenco di problemi risolti, che un vero e proprio manuale di aritmetica. Inoltre, essi presentano una casistica assai più ampia rispetto al Duecento italiano. In certi casi, presentano un taglio enciclopedico, che può ricordare le compilazioni dell’Alto Medioevo (Beda il Venerabile, Alcuino di York ed Isidoro di Siviglia), con l’esposizione della teoria dei numeri e delle proporzioni. Tuttavia, è frequente l’illustrazione di problemi concreti di matematica mercantile, legati ad una società in fase di crescente sviluppo economico e marinaro.
I trattati d’abaco si conservano, di solito, in una singola copia. Un esempio noto è la così detta e anonima Aritmetica di Treviso (1478). Non mancano nella matematica del XV secolo aspetti ricreativi, come nei Ludi matematici di Leon Battista Alberti (1404-1472) e nel manoscritto De viribus quantitatis di Luca Pacioli, l’autore anche della Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proporzionalità (Venezia, 1494) e della Divina proportione (Venezia, 1509), illustrata da Leonardo da Vinci.
Pacioli adotta uno stile para-euclideo, scrive cioè per chi non sa. La sua opera è più influenze che originale, piuttosto ridondante e retorica. Vuole fare conoscere le matematiche. E’ attento allo scenario filosofico-culturale del suo tempo ed alle questioni terminologiche ed estende e coordina la conoscenza delle proposizioni euclidee. Il suo è un interesse, pratico, per le applicazioni e la lettura di determinati problemi. Molto egli deve a Leonardo Pisano (la sezione aurea) ed all’Euclide di Boezio, mentre scarse risultano essere, comunque, le verifiche materiali. Lo scopo è didattico, come nel caso della Aritmetica di Pietro Borghi (Venezia, 1484). Il grande merito di Pacioli è, forse, quello di sapere trasmettere al Rinascimento e alla prima età moderna l’eredità della grande tradizione abachistica, la quale sopravvive in lui nel metodo per eseguire la divisione. In generale, nell’opera del francescano, convivono, e molto strettamente, non senza contraddizioni, il gusto per la speculazione (il tema della armonia delle sfere riecheggia, infatti, il pitagorismo) e la pratica aritmetica (Pacioli è infatti anche il padre della moderna ragioneria avendo per primo trattato della partita doppia nella Summa).
Nel corso del Quattrocento, si afferma e salda poi sempre più il legame tra matematica ed arte. Se Brunelleschi (che però non ci ha lasciato nulla di scritto), scopre la prospettiva, Piero della Francesca ne codifica le leggi in termini scientifici. Nasce quello che André Chastel ha chiamato in modo efficace l’Umanesimo matematico, presente, soprattutto, in area austro-tedesca (Albrecht Durer) ed italiana. A fine Quattrocento, si ha la riscoperta a stampa di Euclide e Vitruvio. Nel 1484 esce postumo il De re aedificatoria di Alberti, il quale nel De pictura aveva altresì codificato la prospettiva artificiale e le sue regole matematiche.
Importantissimo è anche Piero della Francesca (1416-1492), che fu, contemporaneamente, sia pittore sia matematico (la nostra maggiore fonte, al riguardo, resta Vasari). Sono opere di Piero il De perspectiva pingendi, il Libellus de corporibus regolaribus ed un Trattato d’abaco. Si tratta di testi dall’alto valore, e didascalico e culturale, differenti per impostazione dai manoscritti di un homo senza lettere come Leonardo da Vinci. Nell’abaco di Piero si trova anche l’algebra, destinata a grandissima fioritura e rigoglio durante il XVI secolo, segnatamente in Italia e Francia, vera riscoperta moderna che apre le porte all’ars analytica di Viète e dello stesso Descartes.
In Piero della Francesca, rinveniamo tutta la rilevanza del fecondo intreccio tra la scienza e la tecnica: egli è, infatti, euclideo ed abachista insieme e sa spingersi molto oltre le mere esigenze di tipo manualistico dell’aritmetica mercantile a lui precedente. Piero appartiene poi alla storia del disegno (è lui il fondatore della assonometria moderna). Sperimenta linguaggi in modo anche spericolato ed ha, lui dotto, interessi pratici per la costruzione di globi astronomici e geografici, cupole e volte. Alla storia dell’architettura quattrocentesca, in particolare civile e militare (fortificazioni, piazzeforti e balistica), appartiene anche il matematico e pittore Francesco di Giorgio Martini, La sua Praticha di gieometria è un manoscritto, custodito oggi presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze, composto in particolare ad uso degli architetti e letto, con annotazioni, da Leonardo. Tra le fonti di Francesco di Giorgio troviamo Euclide e Alberti.
Il XII secolo ed il tardo Medioevo furono anche il mondo delle prime università europee. Le istituzioni-modello di Bologna e Parigi – senza scordare la scuola medica salernitana, sorta sotto gli Svevi, con la sua capacità di fare incontrare più culture e tradizioni – vennero presto seguite, da Salamanca nel 1219, da Napoli nel 1224, da Praga nel 1347, da Cracovia nel 1361, da Lovanio nel 1425 e infine da Glasgow nel 1451.
Dal XV secolo, l’apertura plurale da parte della cultura scientifica europea trovò nelle scoperte ed esplorazioni geografiche sia stimoli sia conferme. Paolo dal Pozzo Toscanelli – cartografo, matematico, geografo, collaboratore di Cristoforo Colombo – divenne oggetto di un’attenzione a livello ufficiale, in Portogallo e in Spagna. In particolare, nel Portogallo quattrocentesco viaggiavano non soltanto le merci ma anche le informazioni. Lisbona diventò per volere della monarchia un centro di smistamento tanto delle prime, quanto delle seconde. A Siviglia, un’analoga centrale per la raccolta di notizie scientifiche a proposito del Nuovo Mondo e un centro di addestramento per i navigatori (vi transitarono sia Vespucci, sia Caboto) sorsero nel 1503, congiuntamente. Si venne quindi a creare, nell’Europa mediterranea, una vera ed ampia geografia del sapere – anzi, dei saperi – fatta di centri e di periferie, comunque tra di loro in costante e reciproca relazione istituzionale. Siviglia e Roma non guardavano solo alla Spagna o allo Stato pontificio, ma a tutto il mondo, non senza partecipe e condivisa curiositas. La medesima Roma, da tempo ormai, rivaleggiava con Venezia quale centro di raccolta d’informazioni sull’Oriente. L’azione dei Gesuiti, dal 1540, fu in tal senso fondamentale ed ebbe conseguenze durature nel tempo. Roma era, a tutti gli effetti, un centro scientifico e culturale di prim’ordine. Alla Sapienza e al Collegio romano, si devono infatti aggiungere anche altri istituti di ricerca sorti a partire dal XVI secolo: il Collegio tedesco (1552), quello greco (1577), quello inglese (1578), quello maronita (1584) ed, infine, quello irlandese, inaugurato nel 1628. Anche Parigi – con le sue accademie, la Biblioteca e il Giardino reali – fu un vero centro per la raccolta, il transito e la diffusione ufficiali di informazioni scientifiche ed intellettuali (per altro la cosa maturò soprattutto durante il Seicento, dal regno di Luigi XIII in avanti).
Nell’Italia mediterranea, così come in tutta l’Europa continentale, si ebbero biblioteche pure assai buone, pubbliche e private. Queste ultime furono presenti, ad esempio, a Napoli, già prima del 1700. Le biblioteche, capillarmente presenti – l’Umanesimo non era passato invano – a prescindere pertanto dalla latitudine, si strutturarono sino a definire anch’esse un’autentica geografia della conoscenza, basilari per la trasmissione, elaborazione e distribuzione del sapere. Quest’ultimo venne classificato razionalmente in appositi spazi, primi tra i quali università e biblioteche. Le scienze naturali furono sistematizzate nei musei e nelle collezioni degli orti botanici. Quello che Bacone avrebbe poi chiamato advancement of learning fu un ideale che venne costruito a più voci e in maniera dinamica. Il mondo editoriale di librai e tipografi fornì un mercato per la diffusione delle informazioni, in particolare scientifiche e culturali in senso lato. Fra XV e XVI secolo – prima cioè di Amsterdam e Ginevra, Parigi e Londra – Venezia fu la grande capitale della stampa europea. E dire Venezia implicava dire anche mondo adriatico ed Oriente, in un’Europa che almeno culturalmente non conosceva e non voleva conoscere divisioni o barriere. Dal 1550 almeno iniziarono ad apparire – specie nelle zone ove più attiva era l’opera della Contro-Riforma, vale a dire Roma, Tolosa e Madrid – sussidi alla ricerca storica ed opere storiografiche vere e proprie, naturalmente improntate (lo sarebbero state per almeno un secolo ancora) allo spirito dogmatico fatto proprio e difeso dal Concilio di Trento.
Il vero collante dell’erudizione italiana ed europea, almeno a parere di chi scrive, fu la cultura di impostazione enciclopedica, organizzata alfabeticamente. Diede voce alla progressiva affermazione del metodo geometrico proprio della nuova scienza e a quell’empirismo – forgiato la prima volta da Roger Bacon, nell’Inghilterra duecentesca – che, culminando nel Settecento dei Lumi, fu la grande avventura della conoscenza nell’Europa della prima modernità.
In conclusione, riassumendo: ad entrare progressivamente ed inesorabilmente in crisi, durante il Basso Evo italiano ed europeo, fu l’aristotelismo scientifico della cultura scolastica. La sua fu una lenta morte, un declino che maturò nel corso di quattro secoli scarsi, a nord come a sud della Manica. I suoi paradigmi vennero dapprima messi in crisi – da studi di meccanica e statica che illustravano sempre più le falle ineliminabili della logica peripatetica, nonché dalla crescente importanza del sapere matematico (che lo Stagirita, come noto, aveva grandemente sottostimato) – e quindi contestati, su scala via via più ampia, nelle isole britanniche come sul continente. Questo, per ricordare che il funerale della scienza di matrice aristotelica fu lungamente preparato, a diverse latitudini e da molteplici protagonisti. Solo così poté sorgere ed affermarsi la ‘nuova scienza’ di età moderna, dal Rinascimento del XVI secolo ai Lumi del Settecento.
In conclusione ed in sintesi: a partire già dal Trecento europeo, ed inglese in particolare, lo sviluppo e la maturazione del sapere scientifico cominciò a poggiare su una rete condivisa di interessi filosofico-culturali e iniziative istituzionali che andavano sempre più affiancando alla tradizione peripatetica, insegnata nelle università dell’Europa, tutta una serie di contenuti nuovi, che, fra continuità e trasformazione, posero le basi intellettuali per la successiva nascita della cosiddetta nuova scienza. Nella fattispecie, venne avviato un processo storico di crescita che, non senza contributi originali, sarebbe poi stato portato a pieno compimento in epoca sei e settecentesca, soprattutto nel quadro del network accademico continentale. Di quel processo, il presente saggio analizza gli albori e cerca di porre in evidenza il contesto mediterraneo e cristiano-latino in cui essi si manifestarono per la prima volta, durante la crisi del XIV secolo e quello che Huizinga ha chiamato felicemente l’autunno del Medioevo. Venne, a conti fatti, costruita materialmente l’immagine di un sapere, frutto di un dialogo plurale, che aveva un’identità europea ed era sia sovra-nazionale sia sovra-statale. A entrare in crisi e lentamente morire fu l’aristotelismo scientifico cristianizzato durante il Duecento.
Davide Arecco
(Università degli Studi di Genova)
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